[Articolo] Prefazione alle Fiabe dei Fratelli Grimm

(di Luciana Mariangeli)

C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, un bellissimo principe; e azzurri come il mare d’estate erano i suoi occhi, e larga aveva la falcata, e folte le sopracciglia, e di fuoco le sue labbra, e la sua voce era fonda come cuore di tamburo; ma i suoi occhi erano tristi, perché sua madre, la dolce regina, era morta presto, e suo padre era un ingiusto, aspro tiranno incapace di pronunciare una sola parola di lode e che anzi biasimava e tormentava il figlio in ogni modo. Così il principe era giunto a odiare il mondo, e non amava nessuno. E un giorno accadde che, camminando solo e triste per un sentiero fra i campi sopra il mare, incontrò una vecchia donna. che andava a portare da mangiare ai gatti con due grandi secchi di pastone. La vecchia guardò il principe, si fermò e gli disse: “Tu hai il male dentro”. Poi, alzandosi sui piedi, gli afferrò la testa e gliela fece piegare immergendola nel cibo per i gatti. Quando il giovane principe rialzò il capo dal secchio, vide stupefatto intorno a sé un mondo che era diventato nuovo: tutto era più bello, tutto era pieno di luce e di valore. La vecchia gli apparve una fata, i secchi due coppe preziose, il povero pastone un cibo nutrientissimo e squisito; e una mela che stava a terra, che qualcuno aveva assaggiato e scartato, egli la raccolse con dolcezza e attenzione e: “Povera mela, ti hanno morsicata e buttata via!”, disse con amore, lui che non aveva mai amato nessuno. Da allora, infatti, seppe vedere la bellezza di ogni cosa, portando in tutto il paese il suo amore facile e generoso alle creature più tristi e oppresse, che ovunque egli apparisse si volgevano a lui come girasoli, tornando a fiorire. E quando dovette infine congedarsi dal paese perché il suo tempo era finito, alla persona che più aveva amato volle fare un dono che continuasse a starle vicino al suo posto per tutta la vita: “Ti dono”, le disse. “non il mio cavallo, né il mio falcone, né il mio mantello, né il mio castello, ma una raccomandazione, questa sola: leggi le Fiabe! Nelle Fiabe c’è tutto, tutta la Vita, tutto quello che è necessario sapere per vivere!”. E fu così che la creatura amata rimasta sola riuscì a vivere anche senza il principe, e il buio non ebbe più potere su di lei. il principe le aveva lasciato l’amuleto delle fiabe.
Nelle fiabe c’è quello che forse cento generazioni di nonne – queste benefattrici cui andrebbero elevati monumenti in ricordo, e dedicate piazze e città, e intitolati parchi di alberi centenari- hanno passato ai bambini, quello che il saggio intelligente, nutriente e protettivo grembo della vecchiaia femminile ha compreso e con grazia e finezza infinita ha offerto, come dolcetto dalla tasca del grembiale, all’incessante affacciarsi alla vita delle generazioni inconsapevoli. Le loro fiabe quando eravamo bambini ci hanno tranquillizzato per la loro stessa primaria caratteristica del parlare semplice, dicendo pane al pane, come si parla da bambini, quando il mondo è vero, come ci parliamo qualche volta a noi stessi da soli; secondo grandissimo pregio, le fiabe ci fanno sentire che non siamo soli con le nostre emozioni difficili, e tranquillamente ammettono che in giro – dentro e fuori – c’è l’orco e la madre cattiva e il re debole e il cospiratore maligno, ci sollevano dal peso oppressivo della recita di una falsa inesistente innocenza e dall’alibi della buona creanza: si, ammettono tranquillamente le fiabe, siamo tutti un po’ serpenti agitati da passioni di cui ci vergogniamo, ma siamo anche eroici falconieri, capaci tutti, se occorre, di gesta eroiche; perché le fiabe anche ci liberano dall’idea, che sembra obbligatoria nell’infanzia e adolescenza, della nostra piccolezza e debolezza e impotenza: il protagonista di tutte le fiabe per quanto “minore”, “grullo”, “sempliciotto”, “alto un pollice”, “coperto di cenere”, si mette coraggioso in movimento, in cammino, trovando così gli aiutanti magici che lo salveranno dalla perdita del regno, ossia dall’angoscia della perdita del suo senso di dignità e di capacità di reggersi da solo. Le fiabe sono magiche nel senso che possiedono il potere di sconfiggere non solo il perbenismo convenzionale ma soprattutto il senso cronico di colpa e di inadeguatezza che ci abita fin da bambini e che sembra il triste ineludibile retaggio dell’essere umano da quando viene “civilizzato”.
So di me stessa che la prima comunicazione vittoriosa al mondo che il piccolo essere di quattro anni che io sono stata fece ai suoi sbalorditi genitori – e al mondo, che allora mi credeva null’altro che un piccolo fascio di nervi senza forza – fu la recita della storia di Cappuccetto Rosso, dunque un tutt’altro che esangue, anzi assai sanguigno personaggio provvisto, con quel rosso in testa, di capacità di trasgressione e di vigorosa erranza: un giorno all’improvviso declamai alla famiglia con energia: “Cappuccetto Rosso andò nel bosco! PUNTO!”, sottolineando la punteggiatura con forza grammatica, per far capire in casa non tanto che mi ricordavo il punto ma che lì presentavo personalmente il dramma. Più che nelle edulcorate storie del principe e del povero, o delle piccole donne della Alcott, racconti scritti da adulti preoccupati non dei tormenti segreti dell’infanzia ma dei conflitti sociali degli adulti, più che in Pinocchio, per me come per Giorgio Manganelli (Scrittore NdY) solo spaventoso, funebre, addirittura terrorizzante, con quella Fatina sadica e incomprensibile, contemporaneamente dolce e gelida, io mi ritrovavo a casa, e provavo sollievo, nel rileggere e rileggere con immutato appagamento la storia russa di Baba Jagà che correva all’inseguimento del protagonista, in quella gigantesca strabica, enorme, col porro peloso, personificazione gonfiata dell’immaginazione inconscia non solo della gelosia edipica di mia madre, e naturalmente anche mia, ma anche della Vita crudele, della sofferenza pervasiva di questo mondo, che il mio inconscio, in quegli anni terribili subito dopo la Seconda Guerra Mondiale già conosceva prima che io lo sapessi ufficialmente; all’opposto, allo stesso modo sentivo come mio e appagante il tranquillo vecchio pescatore della fiaba giapponese appena emerso dall’acqua dove era andato a ritrovare, barba gocciolante e occhi semi addormentati nel ricordo del mondo marino, l’ascia d’oro che lo sconosciuto gli aveva chiesto di ripescare: le fiabe mi presentavano non espliciti problemi di adattamento sociale, comprensibili e importanti solo nella seconda adolescenza, ma gli incontri grandi, quelli con la mia paura e con la mia forza, con il mio senso di merito e il mio senso di demerito, con la mia capacità di scelta, con la mia tentazione della sfiducia e della fiducia: i veri personaggi millenari in lotta dentro ogni bambino e ogni uomo fin dalla nascita del tempo.
E ugualmente immemoriale l’emergere in ogni fiaba, puntualmente, dell’inaspettato: sotto forma di incontro, di pensiero, di evento, esso è il motivo prediletto di tutti questi racconti che proprio nell’inaspettato accentrano la scolta che risolverà la crisi e restituirà l’antico benessere perduto: con le fiabe le vecchie nonne anonime di ogni paese, come le narratrici fonti dei fratelli Grimm, hanno insegnato ai bambini, subito, che nella vita si incontra l’inaspettato e che esso lungi dall’essere solo temibile è invece magico, ha un “mag” (mag è la radice di molte parole indoeuropee, come maggio, che significa grande, il mese in cui la natura è grande, ha le foglie più larghe; come mago, persona che ha potere sulla natura. Il calendimaggio, per esempio, è una festa rituale primaverile importantissima in tutta l’Europa. NdY), grandezza, forza: come insegnano le fiabe, per cavarsi d’impiccio basta tenere gli occhi bene aperti, non chiusi per la paura, perché da sotto e da sopra, e da fuori e da dentro, dalla chiocciolina che dipinge il suo strascico d’argento sul sentiero dell’orto, dal cartello stinto attaccato al crocevia, dalla vecchietta incontrata in una campagna perduta, dal consiglio dell’amico e dalla canzone canticchiata al risveglio, l’aiuto verrà. Verrà dalla luce divenuta diversa nella stanza con le persiane socchiuse alla fine di una giornata di lotta e di sudore, verrà da suoni tranquilli e familiari nel cortile che faranno da voci quando voci nella casa non ci sono: c’è sempre qualcuno, dicono le fiabe, nella casa, casa di mattoni o di canne, con cui parlare, qualcuno che ci dica l’altro pezzo manca per completare il nostro mosaico.
Le notti buie nel bosco pauroso, notti ripetute, fitte, come ripetute sono le prove a cui è sottoposto il protagonista prima di essere creduto, riconosciuto, salvato, sono lì per dire ai bambini che poi c’è il mattino dopo, l’uscita dalla foresta: si tratta di resistere, di non volere tutto subito, di superare lo stadio dell’oralità smaniosa, distruttiva del senso di rispetto di sé. E nelle fiabe si parla semplice e schietto, tutti danno del tu a tutti, tutti fratelli come in realtà siamo, vicini alla mamma originaria, il soldato da del tu al principe e l’albero dialoga con il canestro e il topo dice tu al re. Nelle fiabe nessuno si vergogna dei suoi bisogni fisici, fame, sete, sonno, freddo, e dei suoi sentimenti, ognuno mostra come è, buono, cattivo, avido, egoista, curioso, calcolatore, diffidente, fiducioso. Altro che mondo di nursery a tinte pastello: all’eroe, insegnano le fiabe, può capitare di tutto, di essere umiliati, imprigionati, tagliati a pezzi, insalsicciati come Pollicino pellegrino, per non parlare del regolare perdersi nel bosco della confusione – ricordo genetico del comune destino umano dei tempi preistorici, quando i nostri predecessori si trovavano continuamente a dover scegliere tra l’essere mangiati dal dinosauro fuori della caverna o dall’orso dentro la caverna, e tuttavia in qualche modo ce l’hanno fatta, se noi adesso siamo qui. E’ un gran sollievo apprendere dall’inizio che la paura, la difficoltà della scelta, sono una esperienza comune, non il simbolo di una nostra spaventosa vergognosa debolezza di presunti unici figli dell’oca nera nudi della camicia che tutti gli altri invece avrebbero.
Le favole insegnano che “basta fare qualcosa di diverso”, che a volte può sembrare solo una disubbidienza o un’impudenza, ma più spesso è un gesto spontaneo ispirato proprio dal bisogno del momento, a risolvere la situazione quando essa si fa critica: è seguendo proprio il suo bisogno di abbandonarsi alla sua curiosità, proibita dalla madre, e al suo piacere di raccogliere i fiori che Cappuccetto Rosso si procura la sua inquietante avventura – così in carattere col suo temperamento curioso! – con il lupo, avventura che le insegnerà la saggezza. Fare qualcosa di diverso dal previsto significa fare qualcosa di nuovo, e poiché il cambiamento è la legge della vita, ecco che il gesto nuovo, la parola nuova, rimettono in moto il fiumiciattolo della vita che i vecchi sassi del retaggio del passato avevano a un certo punto ostruito e fermato. L’importante, insegnano le fiabe al bambino tentato dalla regressione passiva, dal chiudersi nella paura e raggomitolarsi facendosi più piccolo, è una iniziativa anche minima autonoma.
“Pane, vino, la pastasciutta, io me la mangio tutta!”, ed era fatta, potevo addormentarmi all’istante, e dormire saporitamente, avendo riaffermato innanzitutto a me stessa la vera presenza consolidatoria: il mio desiderio di vivere e di avere piacere: l’unica fede in cui forse possibile credere sempre.
Ho sperimentato su di me che non possiamo leggere bene le fiabe più di una per volta, una al giorno, forse una la sera, come raccontava Sheherazade al suo re: sono colme di nutriente fino alla buccia, palle di energia, epopee essenziali, di esemplarità impeccabile, profonda; sono tutte verbi, tutte azioni, la descrizione ridotta al minimo e l’elucubrazione filosofica di piccolezza anatomica: una serie velocissima di eventi infilati allo spiedo del focolare del racconto uno dopo l’altro, con protagonisti velocissimi nella risposta: anche così le fiabe dicono, insegnano, che la vita è questo viaggio continuo, talora a rotta di collo, nel bosco spinoso e misterioso degli eventi sempre nuovi che è anche l’immenso arsenale di risorse che le fate hanno donato a ogni essere vivente nella culla. Ricordare come il mondo è fatto, ci serve assai. “Estote parati”, ripetono le fiabe, la vita è traversia continua, lo insegnano a chi lo scorda o solo lo ignora o per ingenuità o per educazione o per l’ingenuo bisogno, coltivato dalle nostre religioni salvifiche, di una redenzione unica, unica per sempre; invece nelle fiabe non c’è un unico grande “vissero felici per sempre”, semmai “vissero felici e contenti fino alla morte”, ci sono in realtà tanti piccoli “vissero felici” per quel momento in quella condizione che poi si rovescerà in qualche modo di nuovo: come è stato detto, non c’è una Salvezza definitiva ma tante piccole salvezze continuamente possibili nel continuo riaffiorare dell’oca – antico simbolo dell’energia – nel bosco della vita, gioco dell’oca in cui se si può sempre perdere si può sempre ricominciare.
Leggere spesso delle fiabe in un buon lasso di tempo rassicura chiunque: rassicura che è vera l’ambascia continua della vita – ambascia da imboscata, attacco dal bosco – ma che essa non è un mio copione personalissimo di sventura ma la regola della vita, per tutti, e anche rassicura che è vera per tutti la possibilità dell’incontro con il Principe, con l’Animale sapiente, con la misteriosa Vecchietta che ci aiuterà. il punto è non credere che il bel principe ci bacerà tutta la vita, che la vecchietta ci darà sempre la sua chiave d’oro, anche se il ricordo della loro apparizione inaspettata, del loro aspetto da Cavaliere immemoriale, da Vecchia Madre, incarnazione della Gentilezza dell’universo, ci aiuterà per il resto dell’esistenza.
Credevano che le loro fiabe, raccolte pazientemente da tante fonti, dalle nonne, dalle governanti, dalle narratrici di villaggio, fossero non fantasticherie ma qualcosa di molto importante, i due Grimm, Jacob e Wilhelm, loro stessi personaggi fiabeschi – quanto vorremmo vedere, come in una stampa Biedermeier (termine che indica il piccolo borghese apolitico e conservatore, interessato solo alla propria vita familiare. È composto da due parole, cioè l’aggettivo semplice, sempliciotto, “bieder”, ma che significa anche integro, onesto. NdY) unito a uno dei cognomi tedeschi più diffusi Meier o Maier), questi due fratelli tedeschi del primo Ottocento vissuti sempre insieme, intenti tutta la vita a trascrivere nelle sale lucide e silenziose della loro Biblioteca aperta su lontani giardini tranquilli i racconti delle loro narratrici. I fratelli credevano che le fiabe fossero frammenti di miti antichissimi, risalenti al tempo in cui i popoli originari interpretavano in modo simbolico i fenomeni naturali, soprattutto i movimenti dei pianeti, il sorgere e tramontare del Sole e della Luna, la pioggia, il fulmine e il tuono, e le stagioni: era questa la cosiddetta teoria mitica, sostenuta anche da Max Müller, da George Cox e in italia da Angelo De Gubernatis. Miti, e collegati a essi, riti: il Saintyves affermerà che Cappuccetto Rosso, la Bella Addormentata e Cenerentola hanno per origine i riti che celebrano il rinnovarsi delle stagioni, e che Pollicino, Barbablù e il gatto con gli Stivali vengono da riti di iniziazione. Era un’espressione dell’interesse dell’epoca romantica non più per le figure dei leaders e dei potenti, ma per i popoli, nuovi protagonisti che si affacciavano alla storia reclamando per la prima volta i loro diritti. E mentre in Francia i poeti romantici, da George Sand a Gérard de Nerval, attenti al valore del patrimonio popolare, riscoprivano le vecchie stupende canzoni del folklore e anch’essi le trascrivevano, salvandole dall’oblio, i Inghilterra T. Benfey, curatore nel 1859 del Pañcatantra, la classica raccolta di fiabe indiane destinata all’educazione dei principi, pagherà anch’egli il suo omaggio alla sapienza dei popoli avanzando la sua teoria indianistica dell’origine delle fiabe, che tutte sarebbero nate nel subcontinente asiatico e da lì si sarebbero irradiate nel resto del mondo.
Come dice Jung, poiché la realtà è complessa, solo delle spiegazioni complesse, o più spiegazioni insieme, possono avvicinarlesi: perciò se han l’aria di aver ragione tutti i teorici delle fiabe con le loro diverse ipotesi, i fratelli Grimm hanno il merito di aver avanzato per primi una teoria che testimonia piena attenzione e rispetto ai preziosi racconti delle nonne, elevate dal Frazer a depositarie degli usi e dei riti di tutti i popoli originari – e certo M. Cox ha potuto contare nel 1893 ben 345 versioni di Cenerentola in altrettanti paesi. E’ possibile che sia vero anche che le fiabe sono il “catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna” come dice Italo Calvino; che esse rappresentano costantemente “un passaggio da funzioni negative a funzioni che rovesciano o superano la negatività delle prime”, come dicono Propp, Lèvi-Strauss e Greimas, perciò avevano ragione i fratelli Grimm a credere che esse “sono l’intatta sorgente di energia fantastica cui la borghesia poteva attingere, la fonte popolare della creatività” e infatti in Germania queste Kinder-und Haus märchen (Fiabe per la casa e i bambini) sono diffuse quanto la Bibbia. Se sono il ricordo sbiadito di antichi riti di iniziazione, inseparabili dal mito, come diceva Levi-Strauss, certamente sono anche l’espressione di un bisogno ingenuo, di una morale ingenua che rifiuta l’ingiustizia dei fatti e costruisce la possibilità della riparazione, come pensa André Jolles. Freud credette di poter dimostrare che l’origine delle fiabe è il sogno, anzi si servì delle fiabe per spiegare i sogni del suo celebre caso, l’Uomo dei lupi, oggi oggetto di critiche quasi completamente demolitrici; resta plausibile che le fiabe anche “consentono di studiare meglio la psiche, in quanto sono l’espressione più pura dei processi psichici dell’inconscio collettivo, e gli eroi fiabeschi sono piuttosto esempi di tipologia umana, archetipi”, come dice Jung, che quindi esse “parlano alla nostra anima e sanno darci risposte autentiche a molti problemi attuali”, come osserva l’allieva dello stesso Jung, Marie-Louise von Franz: quindi “sono un’iniziazione alla vita preziosissima”, come afferma Bruno Bettelheim. A noi scegliere una o tutte le interpretazioni, anche quella che le fiabe sono testi sovversivi perché nei secoli hanno difeso contro i sistemi vigenti i diritti degli emarginati: bambini, donne, poveri – è la tesi di Lurie Alison; che esse sono il veicolo per liberare un giovane dalla paura interiore che lo paralizza, come pensa Carmen Martin Gaite; che vanno lette dai grandi, dagli adulti, che ne ricaveranno beneficio più dei bambini, come appare sicuro a Tolkien, che anche ci dice che le fiabe rappresentano soprattutto consolazione: la consolazione che non verremo mai abbandonati, la possibilità sempre presente di un’improvvisa e felice svolta, nell’eterno desiderio dell’uomo di “sperimentare certe situazioni rischiose, affrontare prove eccezionali, aprirsi la via all’Altro Mondo”, come dice Mircea Eliade; che le fiabe sono “esplorazioni spirituali estremamente realistiche, che rivelano la vita umana come è vista o sentita dall’intimo”: è G. K. Chesterton. personalmente io mi sento toccata dalla definizione di qualcuno molto vicino al mondo dei bambini, Lewis Carroll: le fiabe, dice semplicemente, “sono un dono d’amore”, perché rassicurano, infondono speranza nel futuro e offrono la promessa di un lieto fine. Perciò Italo Calvino ha potuto spiegare in senso positivo una caratteristica specifica di molte fiabe dei fratelli Grimm: la crudeltà, “il continuo informe schizzar di sangue, la truculenza, la ferocia sanguinaria, l’infierire sulla vittima” in cui egli ravvisa non una volontà sadica, ma l’espressione fantastica del desiderio di giustizia dell’eroe-bambino che vuole che l’offesa al suo Io sia pienamente riscattata.
Sul mondo incantato delle fiabe Bruno Bettelheim ha forse detto la parola più utile per il nostro tempo spaventato e spaventoso, vero paesaggio riattualizzato di tanti di questi crudeli racconti. La fiaba, dice Bettelheim, arriva subito, perché parla il linguaggio stesso del bambino, che non è realistico, ma figurato; in secondo luogo, gli parla di ciò che lo interessa: del mondo intorno, dei conflitti che sente dentro e fuori, degli adulti prima buoni e poi “cattivi” quando chiedono adattamento alla realtà; gli parla con tutta la profondità emotiva con cui il suo giovane cuore avverte le cose ma mascherata dall’altrove e dal tempo lontano e che perciò può essere liberamente estrema. Infine, soprattutto, la fiaba è generalmente ottimista, gli mostra un mondo pieno sì di pericoli spaventosi ma anche di giovani eroi spesso inizialmente dimessi o emarginati che, utilizzando quello che trovano sul cammino, ascoltando il consiglio inaspettato, l’alleato sconosciuto, ce la fanno a uscire vincitori.
Raramente le nonne raccontano fiabe che finiscono male, e qualcuna di queste è presente nella raccolta dei Grimm: per esse è stato detto che anche nel caso in cui la fiaba finisce male, essa finisce bene perché l’eroe comunque si è mosso, ha tentato, ha partecipato al gran gioco dell’oca della vita.
Si tratta dunque di percorsi verso una felicità possibile, che, come dice Paola Mazzetti, aiutano a riconoscere quale è l’atteggiamento che porta dolore e quale quello che porta almeno a una forma di serenità: per vivere, vanno insegnando da secoli le nonne, personificazioni della Grande Dea, occorre evitare di rinunciare, e accettare, sì, di avere un orientamento, uno scopo, ma poi sapere che il fiumiciattolo della vita va dove vuole; nondimeno bisogna usare le proprie abilità e inventarsi una speranza, letteralmente scegliendo di crederci pur non essendone sicuri: come dice quel saggio: “Forse il pessimista alla fine ha ragione, ma intanto l’ottimista sai quanto si diverte”. E bisogna anche accettare, cioè sapere, e quindi adattarsi di conseguenza, che sul fiumiciattolo della vita si incontrano degli ostacoli, quindi il corso va corretto continuamente, non può essere fisso, poiché perversa è la fissità e sana l’alternanza. La via d’uscita, insegnano le fiabe, c’è sempre, da qualche parte, perciò si possono e devono accettare gli imprevisti che si incontrano sul cammino, compresi gli imprevisti fortunati, compito difficile per i tanti timidi affetti da sensi di colpa cronici. Il destino può essere cambiato, vengono mormorando sommessamente e fermamente da secoli le voci delle nonne, la scelta è sempre possibile. E allora anche accettare l’inevitabile, se ci si para davanti, se non c’è scampo, sarà una via d’uscita. Leggiamo le fiabe, e siamo grati a chi le ha create e tramandate.

Pubblicato da Blue Ylith

Sono solo un'ombra del bosco.