Amergin mac Míled (o Aimhirghin), conosciuto con l’epiteto glúngel (“bianco ginocchio“), era figlio di Mil Espáine (o Miled, poi latinizzato in Milesio) e ricopriva il ruolo di Druido, Bardo e Giudice dei Milesi, secondo la tradizione il primo popolo gaelico d’Irlanda. A lui sono attribuiti diversi poemi riguardanti l’epopea di questo popolo mitico.
Gli invasori Milesi, guidati dagli otto figli di Mil, morto nella penisola iberica, terra da cui i Milesi sono originari, giungono in Irlanda assetati di vendetta per l’assassinio di Ith, un loro esploratore ucciso a tradimento dai tre re dei Tuatha De Danann: Sethor Mac Cuill, Cethor Mac Cecht e Tethor Mac Greine. Arrivati ricevettero il consenso ad insediarsi sull’isola in successione delle tre regine: Banba, Eriu e Fodla. Ognuna delle tre sorelle regnanti però chiese ad Amergin di dare il proprio nome al paese dopo la propria morte. Proprio dall’antico nome di Eriu deriva quello moderno di Eire, mentre gli altri due appellativi sono rimasti piuttosto relegati al complesso del linguaggio poetico.
La leggenda narra che i Milesi per poter restare in quelle terre avrebbero dovuto appunto prima vincere i tre re e i loro uomini. Proprio Amergin figura come arbitro imparziale della contesa e fissa le regole per stabilire la vittoria. I Milesi accettano così di ritirarsi dall’Irlanda “oltre la nona onda” (un termine che non indica un confine geografico, bensì una frontiera magica, uno dei tanti passaggi verso l’Altro Mondo celtico.). Al segnale convenuto essi muovono verso la spiaggia, ma i Druidi dei Tuatha De Danann scatenano una tempesta magica che impedisca loro di toccare terra. Solo l’intervento di Amergin, che invoca cantando lo “spirito d’Irlanda“, rompe la barriera e permette l’attracco della nave. Questa canzone salvifica rimarrà nota come la “Invocanzone per l’Irlanda“. Dopo gravi perdite da entrambe le parti i Milesi vincono la battaglia: i tre re dei Tuatha De Danann vengono vinti in duello dai tre superstiti figli di Mil: Eber Finn, Eremon e lo stesso Amergin il Druido. Quest’ultimo poi dividerà l’isola così conquistata tra i suoi fratelli, dando a Eber la metà meridionale, ad Eremon quella settentrionale.
È interessante notare la somiglianza tra i poemi del leggendario poeta gallese Taliesin e quelli attribuiti all’irlandese Amergin mac Miled.
I Bardi e i Druidi
Quando si parla di Bardi, viene subito in mente l’addestramento per divenire Druidi, e spesso non si da eccessiva importanza a questa figura vista, appunto, come un “passaggio” di grado. Ma è davvero così?
Il termine deriva direttamente dal proto-celtico bardos che significa “alzare la voce“, “elogiare”. Esso compare per la prima volta in un atto ufficiale del 1449 in gaelico scozzese, per indicare un musicista itinerante, spesso utilizzato con atteggiamento sprezzante.
I bardi erano i conservatori del sapere del popolo, quindi venivano istruiti per memorizzarne tutte le tradizioni e i miti.
Tuttavia bisogna sottolineare la differenza tra Bardo e Filid. Anche in questo caso il termine è tardivo e deriverebbe dal proto-celtico “widluios”, che significa “veggente“, “colui che vede”, “vedere”. Ciò potrebbe suggerire che i filid fossero in origine poeti profetici, che predissero il futuro sotto forma di versi o indovinelli, piuttosto che semplici poeti.
Il potere spesso associato alla satira nascosta nelle poesie dei Bardi e dei Filid poteva dunque nascondere ben altro. Secondo molti racconti, i canti dei Filid erano in grado di ammansire le belve feroci, placare gli animi dei guerrieri schierati in battaglia, commuovere gli dèi del cielo fino a costringerli a versare lacrime di pioggia, assicurare buoni raccolti e bestiame fertile, donare serenità nelle assemblee, far innamorare i giovani; ma potevano anche scagliare maledizioni che rendevano sterili acque, terre, animali e boschi, far sprofondare la terra sotto i piedi, provocare tempeste di acqua e di fuoco, far comparire la nebbia in giornate di sole. Essi dunque erano i detentori del potere della parola.
Nora K. Chadwick, dell’Università di Oxford, sostiene i Filid erano poeti dell’Estasi. Nel volume Scottish Gaelic Studies parla infatti di Teinm Láida e di Imbas forosnai, come tecniche per raggiungere l’illuminazione attraverso la poesia. I componimenti poetici celti, infatti, avevano, tra l’altro, lo scopo di “ispirare” coloro che ascoltavano. Usando i loro strumenti poetici, ovvero canti e parole, essi infatti inducevano le visioni.
Un esempio appunto la pratica nota come Imbas Forosnai, ovvero il dono di chiaroveggenza praticata dai poeti dell’antica Irlanda . Il termine stesso, Imbas, significa “ispirazione”, e in particolare si riferisce alla sacra ispirazione poetica. Forosnai invece significa “illuminato” o “ciò che illumina”. Il termine lo ritroviamo per la prima volta nel Glossario di Cormac, realizzato attorno al 830-910 d.C. e contenente le etimologie e le spiegazioni di oltre 1400 parole irlandesi. Queste pratiche furono poi subito messe al bando da San Patrizio e i preti cristiani perché avrebbero favorito il contatto con il soprannaturale e gli dei pagani, per questo oggi ci sono arrivate pochissime informazioni.
Alcune tracce di tale pratica la troviamo però in qualche testo mitologico irlandese, come nel Ciclo di Fenian. Qui Fionn, durante la sua giovinezza, avrebbe appreso la tecnica dell’ Imbas Forosnai, inoltre, in una storia successiva, quando trova il corpo decapitato di un uomo nella sua casa, è in grado di identificarlo come Lomna, intonando il Tenm Láida. Ma Fionn non fu l’unico a usare queste tecniche per accedere alla “seconda vista”. La mitologia irlandese è disseminata di riferimenti all’uso della divinazione e della profezia nel canto. Il rituale tradizionale è andato perduto. Secondo alcuni fonti storiche per rispondere ad un quesito il poeta masticava carne ed ossa del suo animale totemico (cinghiale, cane, gatto, etc.) per poi avere, attraverso il canto e il sonno, la visione da interpretare. Il “canto” permette dunque di guardare le cose con altro sguardo, al di là delle loro forme ma focalizzando sui fenomeni. Se infatti tutto ciò che ci circonda è espressione del divino o porzione di esso, il canto può mettere in risonanza tali aspetti sopiti della realtà.
Si svela, dunque il potere di veggenza del Bardo.